Depressione: il "male oscuro" del nuovo millennio?

La scorsa settimana, a Sesto S. Giovanni (Milano), l'ennesimo fatto di cronaca nera legato a un disturbo psichico ha fatto il tam tam per qualche ora tra i media locali.
La storia è quella di un ragazzo ventiseienne, con problemi mentali e di dipendenza da cannabis e alcol, che nella notte tra il 14 e il 15 dicembre ha accoltellato i suoi genitori. Dalle prime righe apparse su Corriere della Sera si evince che il giovane, con disturbi psicologici, era entrato in depressione anche in seguito ai problemi di salute del padre. Complicazioni mediche derivanti dall'alcolismo del genitore che, sempre leggendo l'articolo, viene imputato anche di violenze domestiche reiterate.

Come al solito i commenti si sprecano, in un istante i lettori del quotidiano diventano tutti esperti di psicologia, psichiatria e assistenza socio-sanitaria. E, se è vero che il giovane non può certo essere giudicato innocente solo perché psicologicamente disturbato e inserito in un contesto familiare critico, è altrettanto vero che prima di improvvisarsi psicologi ferrati e commentare con frasi completamente fuori luogo, bisognerebbe prendere una specializzazione in un unica materia: l'astenersi dal giudizio.

Nella speranza che, anche questa volta, Nastorix possa portare ad una corretta informazione a riguardo, abbiamo chiesto il parere di una persona qualificata che si occupa non soltanto di psicologia, ma anche di dipendenze. Ringraziamo quindi il Dottor G.Corrado, Psicologo e Psicoterapeuta specializzando in Terapia Sistemica, che attualmente lavora a Milano, con pazienti con problemi di dipendenza.

 

Si sente spesso parlare di “depressione” come se fosse una malattia psicologica generica. Sapresti finalmente fare chiarezza su cos’è la depressione?

La depressione è una malattia tutt'altro che generica. La psicopatologia psichiatrica e quella psicoanalitica ne hanno delimitato in modo attento i connotati, per quanto il costrutto diagnostico sia ricco di sottotipi e confini con diversi altri disturbi. In linea di massima, la depressione consiste in un ritiro delle proprie energie e del proprio desiderio (nel senso più ampio del termine), che vengono per così dire sottratte al mondo e riportate in direzione di se stessi o di una figura irraggiungibile (un genitore morto, un partner fuggito). Ciò produce una sintomatologia caratterizzata da isolamento sociale, perdita di appetito, di desiderio sessuale, disturbi somatici di ogni tipo, convinzione di essere molto più deboli degli altri, fantasie di suicidio. Vari sono gli apparati diagnostici applicabili: da quello psicoanalitico, che la collega alla “melanconia”, a un processo di lutto male elaborato e al senso di colpa, a quello neurobiologico, che si rifà a un bilancio disarmonico di serotonina, noradrenalina e dopamina e ad alti livelli di cortisolo nel sangue. Per quanto riguarda i sottotipi, la depressione presenta alcune varianti (i cosiddetti disturbi bipolari) nelle quali i momenti di umore deflesso si alternano a fasi in cui l'individuo è eccitato e aggressivo in modo incontrollabile. Tuttavia, nel caso di questo ragazzo, se di depressione davvero si tratta, io penserei anche a una sintomatologia psicotica (cioè idee deliranti, allucinazioni eccetera) perché, dopotutto, nella ricostruzione giornalistica, ha ucciso i suoi genitori e si è rimesso a dormire come niente fosse.

La depressione (psicotica e non) ha una relazione diretta con l’utilizzo di sostanze come la cannabis e l’alcol? Perché?

L'alcol funziona in modo molto simile a un antidepressivo, ma non ne condivide un aspetto importante: non viene dosato da uno psichiatra. Nessun professionista sano di mente prescriverebbe un antidepressivo a un paziente lasciandolo per così dire “alla mercé” delle pastiglie. I livelli ormonali del sangue vengono tenuti sotto controllo, così come l'umore, per evitare che gli antidepressivi producano effetti imprevedibili o parossistici. Viceversa un individuo solo, disperato, convinto di essere un totale incapace, che si rifugia nell'alcol corre il rischio di apprezzarne effetti portentosi, ma effimeri e di alzare a dismisura la dose. Fra l'altro l'alcol, associato agli antidepressivi, ha un effetto moltiplicato in modo esponenziale. La cannabis, viceversa, è pericolosa più che altro per ciò che riguarda gli effetti psicotropi di blando allucinogeno. Si tratta del potenziamento delle idee paranoidi (non a caso il ragazzo pare avesse dichiarato che sua madre voleva ucciderlo) o delle percezioni bizzarre. Se, come sono propenso a credere, la depressione del ragazzo era correlata a sintomi psicotici, anche la cannabis poteva rivelarsi una brutta amica.

Esiste un caso simile: Erika e Omar a Novi Ligure. Anche in quel caso si era parlato di droga in modo generico. Riusciresti a spiegarci come agisce la cannabis su persone affette da un disturbo psichico?

La cannabis agisce su tutti in modo simile: è un potente ansiolitico e uno stabilizzatore di membrana, ha blandi effetti eccitatori e allucinatori (blandi rispetto a che so, cocaina e LSD). Il punto principale, lo ripeto, è l'aspetto per cui il THC agisce sul processo cognitivo e sull'immaginazione. Questo significa che una persona che tende a percepire il mondo in modo bizzarro o ostile (o, peggio, bizzarramente ostile), troverà probabilmente più conferme al suo modo di pensare se usa quotidianamente cannabis. Viceversa una persona concreta e posata, malata di artrite o di dolori cronici, potrebbe averne, a dosi controllate, solo effetti benefici (da qui, tutto il dibattito sulla legalizzazione).

Quanto peso ha il setting familiare sullo sviluppo di un disturbo come la depressione?

Per quanto mi riguarda, è molto importante. Anche muovendo da una prospettiva teorica che accorda all'aspetto neurobiologico il ruolo principale (cioè non la mia), tutti i principali fattori di rischio sono trasmissibili geneticamente. Il peso della genetica, del resto, è aumentato dal fatto che le persone che ti “donano” i geni, di solito ti “donano” anche un'educazione a essi confacente, con un effetto moltiplicativo notevole. D'altro canto, nella mia ottica di terapeuta sistemico, l'individuo si modella sempre all'interno di un campo di relazioni umane che può comprendere anche diverse generazioni e il peso all'interno di un gioco complesso di questo tipo di un padre alcolista diabetico in sedia a rotelle è impossibile da ignorare. Tuttavia le relazioni non sono solo quelle familiari e ci sarebbe da chiedersi chi stava attorno e vicino a questo ragazzo, chi gli dava o non gli dava affetto, simpatia, lavoro. E in ultima analisi rimane lui, che non è le sue sinapsi, la sua società o i suoi genitori che, nella sua singolarità irriducibile, prende il coltello e fa una scelta. Scelta che, a mio avviso, trovava perfettamente senso nel suo mondo interiore. La domanda successiva, cioè quale mondo interiore dovesse avere uno che trovava sensata una cosa del genere, lascia (deve lasciare) tutti giustamente confusi e intimoriti.

Alla luce del fatto che evidentemente, da quanto riportano i giornali, il ragazzo non assumeva i farmaci prescritti dal CPS da circa un anno, esiste a tuo avviso per il SSN un modo più efficiente di quello attuale di intercettare casi simili e agire su di essi per evitare che determinate situazioni portino poi a tragedie simili?

Non credo che i CPS, così come gli SMI o i SERT, possano fare molto più di quello che già fanno. I farmaci non devono essere imposti in modo forzoso se non in contesti particolari (detentivi, ad esempio o, in modo parziale, nelle comunità) e sta sempre alle famiglie collaborare. Qualsiasi svolta verso un controllo più capillare costituirebbe a mio avviso un pericolo rilevante per la libertà individuale. La questione, semmai, potrebbe essere il rapporto del tutto squilibrato tra numero di clinici e numero di pazienti. Questo significa meno attenzione all'individuo e un ambiente frenetico con grandi pressioni sull'efficienza e ben poche sull'efficacia degli interventi. I tagli alla Sanità operati da questo e da molti altri governi di certo non aiutano.
In conclusione, però, l'aspetto che mi preme sottolineare è un altro: eventi di questo genere non si presentano mai nel vuoto astratto, ma in una società, in una cultura e in un tempo particolare. Il collegamento tra il suicidio e la società, del resto non è né innovativo né peregrino (vedere, al riguardo, alla voce Durkheim1). Qui non si tratta di suicidio, ma di un qualcosa di ancor più desolante. Pensarsi immuni a simili eventi, reputarli alieni, disumani o riferirli a una genetica distorta dalla quale siamo stati risparmiati per grazia di Dio, ci predispone soltanto a riviverne repliche continue.

 

Oltre al testo integrale Il suicidio. Studio di sociologia, Biblioteca Universale Rizzoli,  Milano, 2007; in qualità di autrice, consiglio a coloro che volessero approfondire la tematica di consultare anche questo sito web.

Leave a reply

*