Fear X: il doppelgänger

La figura del doppelgänger (sosia, doppio, alter ego) ricopre un ruolo poliedrico nel folklore popolare e nelle arti, poiché può essere – rispettivamente al contesto – considerato il duplicato spettrale di un uomo, un gemello maligno, un presagio di morte e malattia. Nella letteratura contemporanea se ne ritrova esempio nel delirio post-industriale di Fight Club (1999) di Chuck Palhaniuk (poi soggetto dell’omonimo film di David Fincher), ma si potrebbe ripercorrere la letteratura novecentesca a ritroso e imbattersi in una lunghissima serie di nemesi e inquietanti sosia: tra i personaggi malinconici e distorti della grande mela di The New York Trilogy/La trilogia di New York (1985-1987) di Paul Auster negli anni ottanta, nelle beat-allucinazioni di Orpheus Emerged/L’Orfeo emerso (1944-1945) di Jack Kerouac negli anni quaranta, nella blatta metropolitana de Die Verwandlung/La Metamorfosi (1915) di Kafka durante i primi del secolo, per poi terminare nell’ottocento con la psichedelia dark di The Piture of Dorian Gray/Il Ritratto di Dorian Gray (1981) di Oscar Wilde e Strange Case of Dr.Jekyll and Mr.Hyde/Lo Strano caso del Dottor. Jekkyl e Mr.Hyde (1886) di Robert Louis Stevenson. La mitologia del doppelgänger non è però rimasta circoscritta alla letteratura, e in breve è stata trasposta anche sul grande schermo, dove numerosi artisti ne hanno visualizzato diverse versioni, molte delle quali sempre provenienti dalla letteratura: il riflesso dell’immagine di Baldovino che si ritorce contro Baldovino stesso, dopo essere stato acquistato in cambio dell’amore della donna amata dal faustiano Dottor. Scapinelli in Der Studenten Von Praga/Lo Studente di Praga (1913) di Stellan Rye; Beverly ed Eliott – due ginecologi che vivono un rapporto simbiotico – in Dead Ringers/Inseparabili (1988) di David Cronenberg; il mostro Frankestein che prende vita nel Frankestein (1994) di Kenneth Brannagh; Madlaine in Vertigo - La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock e Filippo e Luigi, i gemelli regali in The Man in the Iron Mask/La maschera di ferro (1998) di Randall Wallace e ancora e ancora e ancora.

Può capitare che dei gemelli antinomici si insinuino anche nella critica cinematografica, ancor più facilmente in un film che ha suscitato pareri contrastanti come Fear X. Succede che Stephen Holden sul New York Times associ il film – nella sua componente metafisica – a capolavori come Blow Up (Michelangelo Antonioni, 1966) o – nel ritratto di un vigilante notturno – a Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), definendolo un film che “evoca uno spietato panorama delle persone, come creature isolate, spaventate e potenzialmente violente, precariamente turbinanti attorno alla loro orbita solitaria”37 e che Lou Lumenick sul New York Post lo additi come un “thriller pretenzioso, insoddisfacente e ultra-lento”

Harry, che piange la moglie uccisa nel parcheggio del centro commerciale in cui lavora come guardia giurata e cerca spiegazioni al suo assassinio; Harry, l’essere pacifico che ripudia la violenza, che prova a risalire la tela del ragno, Harry il perdente, il goffo, il depresso, Harry il voyeur, non fa altro che inserirsi nella grande tradizione del doppelgänger, in qualità di individuo che assiste ad un’apparizione o soggetto che appare all’interno della diegesi e portando – fuori dalla diegesi – Refn alla bancarotta. In Fear X, tutto è un gioco di doppi. Non è chiaro il punto di vista, chi sia il protagonista e chi l’antagonista. Non è nemmeno chiaro se sia lo spettatore a guardare il film o il film a guardare lo spettatore, perché John Turturro più volte guarda in camera, come a chiedersi se lì dentro, ci sia qualcun altro. Ma lì dove? Nella stanza della sua casa, nell’albergo o nella sua testa? E’ possibile che Harry fugga dai fantasmi che lo braccano e al contempo sia anch’egli un fantasma? O che comunque il dolore abbia riempito la cornice fisica che lo contiene con tanta meticolosità da rendere il corpo puro sentimento, portandolo ad essere null’altro che sofferenza, il vagante spirito dell’afflizione? Sì, a giudicare dalla reazione dei pochi abitanti del paesino che in lui si imbattono. L’agente che si propone di aiutare Harry nella ricerca della donna che appare sulla foto, stretta tra le mani come un cimelio da cui egli teme di essere privato, lo guarda con occhi sgranati, stralunato, quasi che nelle sue azioni e nei suoi modi di fare ci fosse qualcosa di fuori posto e scricchiolante. Scricchiolante come il pavimento della casa in cui Harry quella foto l’ha trovata e nascosta dall’uomo rientrante nell’appartamento che, però, non lo vede, esattamente come non vedrebbe un fantasma. La prostituta che entra nella sua camera d’albergo gli aleggia intorno provocatoriamente e non smette mai di fissarlo, spingendolo con gli occhi e il busto contro il muro; ronza attorno alla sua figura, lo sfiora, quasi lo bacia, ma non lo tocca. La famiglia di Peter reagisce con un pathos e un’intensità alla presenza dell’uomo, del quale ignorano l’esistenza, tipica del racconto horrorifico o della ghost story, in cui un’entità imprecisata sconvolge l’esistenza tranquilla di una famiglia e mette i suoi membri l’uno contro l’altro. Peter aveva ucciso la moglie di Harry per errore. Era al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma non l’ha mai confessato a nessuno, nemmeno alla madre di suo figlio. L’apparizione del marito riporta a galla il marcio che l’agente di polizia aveva nascosto sotto il tappeto di casa, e anche se non si potrebbe dire con fermezza assoluta che Harry e Peter siano la stessa persona, sicuramente quest’ultimo – appena insignito di un’onorificenza per le azioni compiute nella polizia – con la sua moglie bionda, bella e viva, il suo bambino in salute, il posto di lavoro appagante, e in generale con la sua vita apparentemente perfetta, sembra essere una versione migliorata del protagonista. Tutto quello che Harry ha perso e ciò che vorrebbe (ma non potrà mai) (ri)avere. Persino nella sua doppia vita, nella segreta battaglia che conduce contro la corruzione all’interno dei dipartimenti di polizia insieme a due colleghi e superiori di grado, l’intento è socialmente utile, più nobile rispetto a quello che muove i sotterfugi e le effrazioni nell’esistenza nascosta dell’outsider Harry, egoisticamente involto su un’angoscia del tutto personale e un dolore al quale vuole porre rimedio in solitudine, riguardando continuamente le registrazioni che svelino anche un solo minimo dettaglio utile all’indagine e “dipingendo” sul muro di casa un albero genealogico della sua disperazione, formato da scritte, fotografie, nomi e appunti. Ma chi appare a chi?

A differenza di molti dei grandi personaggi della storia dell’arte entrati in contatto con il proprio doppio, Harry non si imbatte in nessuno, non c’è nessun quadro donato, Tyler Dulder o Dottor.Scapinelli. Harry è la cinepresa di Refn che va a cercare il suo doppio nella testa dell’uomo, intraprendendo un viaggio dalla deprivazione (la scomparsa di moglie e figlio) verso la scoperta della presenza, l’alter ego di cui ha bisogno, la spiegazione all’inconcludenza delle sue indagini e all’insensatezza della morte della moglie; un viaggio dentro la sua mente che può concludersi solo con la rivelazione di un doppio e la necessaria disillusione. I ruoli sono incerti, perché Fear X è un film sull’alter ego, il sosia, lo sdoppiamento della personalità, nel quale coesistono differenti dualismi in continua battaglia: concreto e astratto, successo e insuccesso, vita e morte, vittoria e sconfitta, buono e cattivo. La storia di Harry e la storia del suo doppio, sono due specchi posti l’uno di fronte all’altro e incapaci di distogliere lo sguardo dal riflesso imperfetto della propria immagine. Quella telecamera che penetra con uno zoom nella mente di Harry Cain e plasma un qualcosa (un uomo? Un poltergeist? Una controfigura? Un gemello?) ansimante nel neon, restituisce le migliaia di trame che ristagnano nella mente, l’io che si scompone nel sogno ma che, come nel Mulholland Drive di Lynch, viene sopraffatto dalla condizione reale. L’onirico può essere scovato solo da una macchina da presa coraggiosa, che sappia spingersi oltre, oltre le barriere fisiche del cranio, oltre le pareti di un albergo, la materia empirica e i suoi angoli bui, nei parcheggi dei centri commerciali, negli ascensori, nei corridoi. Refn si deve spingere nel sogno in vernice dell’albergo e nel suo sogno al neon per riprodurre la gabbia mentale di Harry e l’idea cinematografica che nella sua (di Refn) mente è racchiusa. Il cinema è il riflesso delle paure e delle eccitazioni del regista, riproduce lo spirito della sua estetica e l’audacia dei suoi pensieri velenosi. John Turturro guarda la telecamera dritto negli occhi, seminascosto dal suo cuscino, perché aspetta il suo complemento, la telecamera che gli restituisce lo sguardo. Harry scosta la tendina per vedere la moglie immersa nella neve e la moglie si gira per ricambiare l’occhiata. La guardia giurata stringe il cranio del poliziotto chiedendo una motivazione, un perché all’omicidio della moglie, il poliziotto lo fissa negli occhi dopo avergli sparato nel costato. Ma chi sia attivo e chi passivo, chi è che guardi e chi è che venga guardato resta un mistero, forse perché il cinema è per Refn un doppio, un doppelgänger.

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