Ci sono oggetti nati per essere abbinati ad un corpo. Oggetti che a quel corpo donano un’eleganza rara e del quale sembrano un sinuoso prolungamento. Così, quando Francesco Motta impugna le bacchette con le sue dita longilinee e batte sulle percussioni con quelle braccia che sembrano dipinte da Schiele, l’impressione è quella che sia il suo stesso corpo ad entrare in collisione con la membrana del tamburo, rendendo il suono un fattore prima di tutto estetico, organico e cinetico.
Succede diverse volte, in tutti i brani che, non a caso, corrispondono ai momenti di maggior empatia tra pubblico e frontman: nell’ostinato protrarsi di quel “prima o poi ci passerà”, dove le teste di tutto l’Alcatraz si abbassano e si rialzano in maniera ossessiva; nell’incedere violento di “Roma Stasera”, il capolavoro de “La Fine dei vent’anni” che deve aspettare però il secondo encore prima di essere performato; nella seconda strofa di “Se continuiamo a correre” - nell’lp cantata da Alessandro Alosi - con la quale si apre la “Festa di fine tour” (sono circa 100 le date con cui Motta e la sua band hanno solcato l’Italia) e che rassicura i fans sulla riuscita globale del live, quando si sarebbe potuto vedere nel malfunzionamento del microfono (che ha pregiudicato l’esecuzione della prima strofa) un cattivo presagio.
Ma lo show è troppo ben rodato e i musicisti sul palco (i migliori in Italia, secondo il cantante) non hanno tempo nemmeno per la sfortuna che già le note di “Del tempo che passa la felicità” sono nell’aria. Grazie ad un intro in crescendo, l’opening track del disco assume un incedere ancor più epico quando eseguita dal vivo, e dà il modo a Motta di mettere in mostra le sue doti di polistrumentista.
Dopo un’entrata in scena enfatica, in cui salta, si dimena, si batte i pugni sul petto, invita il pubblico a battere le mani, l’autore trova un posto fisso al centro del palco, imbraccia la chitarra, ne pizzica le corde e trova la catarsi in “Una maternità”, delegando l’enfasi emotiva alla sola voce adenoidale, vibrante, in un certo senso apocalittica e sempre intonata.
Sarebbe bello finire così
recita il ritornello, una frase che è diventata anche slogan per la promozione della serata all’Alcatraz, un concerto percepito da molti, soprattutto dai pochi che ancora non avevano visto Motta dal vivo, come un evento. Ma prima della fine manca ancora molto, perché il live dura quasi due ore ed è intervallato da un continuo susseguirsi di ospiti, ringraziamenti a musicisti e produzione, con menzione particolare a Riccardo Sinigallia, il produttore che ha reso possibile quest’opera seminale (si spera) e che Motta non dimentica mai di citare, nemmeno durante le interviste.
In queste due ore, sullo sfondo di una meravigliosa scenografia estetizzante (evento raro per i live italiani), composta da colonne di luce sul palco e alle spalle la trama che marchia il cd fisico, Motta dialoga con il pubblico e manifesta il desiderio di prendere una posizione politica netta (si dice che chi afferma di non essere né di destra né di sinistra di certo non sia di sinistra, beh, io di certo non sono di destra), e dopo una serie di brani tratti da “La fine dei vent’anni”, si concede diversi featuring, prima con i Criminal Jokers, la band con con la quale ha mosso i primi passi nel panorama musicale italiano (Bestie, Fango, Cambio la faccia), poi con due mostri sacri come Giorgio Canali (Lezioni di poesia), che lo accompagna anche alla chitarra di “Abbiamo vinto un’altra guerra” (emozionante ancor più che nella versione in studio) e con Appino, con il quale presenta una cover di “Fino a spaccarti due o tre denti” quello che a detta del frontman degli Zen Circus era “il pezzo preferito di Francesco quando faceva da fonico agli Zen”.
Dopo questa cover incalzante, il tempo dei ringraziamenti deve però finire, anche perché il pubblico è impaziente di sentire gli ultimi brani dell’album.
L’ultimo encore si chiude quindi con un commiato in due atti: il primo, dove viene eseguita la title track, un malinconico inno generazionale cantato a squarciagola dal pubblico intero, capace di strappare più di qualche lacrima a Motta, e il secondo, “Prenditi quello che vuoi”, dove Motta scandisce il testo (prenditi quello che vuoi, lo dimenticherai) con veemenza e passionalità dirompente - tanto da portare a un crowdsurfing sul finale.
Una chiusura che è quasi un riflessione autoreferenziale di un ragazzo, che ragazzo più non è (tutti sapete quanti anni ho, direi che ve l’ho fatto pesare abbastanza), nonché una considerazione essenziale per il futuro, perché dopo essersi preso quello che voleva, Motta deve essere in grado di dimenticare uno dei migliori album che, per songwriting e produzione, è, a mio parere, quanto di più bello e ampio sia stato donato negli ultimi anni al panorama italiano, per perseguire strade differenti e rinnovare un prodotto eccelso, che è una forma finita ma che al contempo non preclude alcuna strada.
