È difficile scrivere di Cronenberg. È difficile soprattutto per chi del regista canadese ha fatto una malattia. Perché proprio come le patosi e le perversioni che mette in scena in ogni pellicola, così la sua filmografia si trasforma in un vero e proprio morbo, che occupa e affascina la mente degli spettatori predisposti. È difficile scrivere di Cronenberg come dimostra anche la scarsa bibliografia a lui dedicata.
È difficile.
Le reti tessute dal suo genio, esattamente come l’intricata tela mentale di Ralph Fiennes in "Spider" (2002), si diramano dalla mente alla società e, soprattutto, dalla società alla mente e al corpo, in un continuo contaminarsi tra microcosmo e macrocosmo, dove le perversioni individuali sono quelle sociali, e dove le aberrazioni sociali portano all’esaltazione delle perversioni individuali. Morbi, fobie ed entità silenziose che si riversano sul fisico. Mutazioni genetiche ed escrescenze corporali a segnare la debolezza e l’adattabilità dell’uomo all’ambiente circostante, plasmato dai pensieri e dal dolore dei protagonisti, in grado di creare violenti esserini freudiani che sfoghino la violenza repressa di una madre nei confronti della figlia piccola in "Brood" (1979) o di far letteralmente esplodere la testa a chiunque li minacci, come in "Scanners" (1981).
È difficile scrivere di Cronenberg, perché nessuno come lui sembra aver intuito i cambiamenti mediatici e del rapporto individuo/ambiente e individuo/individuo avvenuti nel corso degli anni. Cambiamenti che sono indagati minuziosamente tramite l’analisi psicologica del medium e delle ripercussioni che la stessa essenza tecnologica provoca nelle dinamiche tra individuo ed esistenza. Passando tra i prodotti video ludici e la domanda irrisolta “dove finisce il gioco?” negli enigmi ambientali di "EXistenZ" (1999) alle prime riflessioni sulla dimostrazione televisiva della violenza nel precedente "Videodrome" (1983) dove James Woods viene quasi inghiottito da un televisore, in quella che sarà una delle più grandi metafore sul tema di tutta la storia del cinema.
È difficile scrivere di Cronenberg perché se il rapporto con l’esterno risulta essenziale nelle articolazioni minimaliste del cinema del regista, altrettanto lo è il rapporto che il singolo ha con se stesso e, in particolar modo, con la propria sessualità. Allargando il concetto di “omnisessismo” ad ogni oggetto, sin dal suo debutto nel lungometraggio con "Stereo" (1969), e mostrando in ogni pellicola la propria ossessione per la forma, (gli elementi scenici da lui utilizzati saranno considerati un punto di riflessione per il design contemporaneo) Cronenberg sonderà e modellerà la nuova concezione di sessualità e mostrerà la perversione come nessun regista aveva mai osato fare fino ad allora, rappresentando il desiderio più brutale nelle forme più angoscianti ed impensabili. In "Il demone sotto la pelle" (1977) dei vermi creati in laboratorio, dei quali si noterà facilmente l’analogia fallica, attaccano un complesso condominiale, insinuandosi nei corpi dei residenti (cult la sequenza nella vasca da bagno) e provocando uno sfrenato e deteriorante desiderio sessuale, che in "Crash" (1996) porta a creare una sinestesia erotica tra l’eccitazione adrenalinica dell’incidente stradale e quella fisica, con continui riferimenti alla degenerazione candualista dei due protagonisti.
È difficile scrivere di Cronenberg perché il sesso si mostra come tematica centrale in ogni opera del cineasta, volta a rappresentare la nuova, e difficilmente controllabile, autoconsapevolezza dell’individuo moderno, segnata dalla doppia pulsione tra eros e thanatos. Sono infatti la paura e l’attrazione verso la malattia, accompagnate da una concezione nichilista dell’esistenza, a permeare ogni azione ed ogni pulsione dei personaggi, come dei mostri cerebrali che guidino ogni scelta in un mondo violento ed essenzialmente monotono. Nell’adattamento del romanzo capolavoro di DeLillo "Cosmopolis" (2012), la folle giornata di un milionario, giovane genio dell’economia, si giostra interamente all’interno di una limousine, mondo in miniatura, tra continui controlli medici, monitoraggio della borsa e sessualità latente, con lo spettro della morte ad accompagnare il tragitto all’interno della città, da attraversare da un capo all’altro pur di sistemare il taglio di capelli dal barbiere.
Il “sesso” in Cronenberg si rivela quindi tutt’altro rispetto all’ espediente di mercato che ha contraddistinto gran parte della letteratura e del cinema contemporaneo, esso diventa il motore delle azioni di ogni pellicola, l’elemento catartico che porta a determinate scelte e ai conseguenti momenti di climax.
È difficile scrivere di Cronenberg perché la morte non è solo parte del desiderio erotico, ma sembra anche essere l’unico elemento di rottura in un quotidianità piatta e continuamente tracciata su schermi e “pad” d’ogni genere, l’unica possibilità di evasione dai finestrini in plexiglass della mondanità. Morte. Morte che pervade la trasposizione de "Il pasto nudo" di William Burroughs, opera d’arte Beat, allucinata e a tratti vomitevole, che nella rappresentazione di scrivanie trasformatesi in scarafaggi e alieni poggiati al bancone di un bar, porta alla luce la maggiore peculiarità visiva dei film di Cronenberg. L’organicità degli effetti speciali, spesso giostrati maestosamente da Stephan Dupuis. Effetti speciali credibili e crudi, che raramente si prestano all’utilizzo della Computer Grafica. I mostri, gli alieni, le deformazioni fisiche de "Il pasto nudo" (1991) sono l’esempio più lampante della realisticità del prodotto, spesso valorizzato dalla fotografia di Peter Suschitzky, ma che potrebbe essere ammirato anche in opere come "Rabid" (1977) e l’assurda deformazione (simile a una vagina dentata), causata da un innesto di pelle presente sotto l’ascella della protagonista, con la quale ella succhierà il sangue degli uomini incontrati nel corso del film, oppure nell’agonizzante decomposizione corporea di Jeff Goldblum ne "La mosca" (1986) e in molti altri capolavori del regista.
È difficile scrivere di Cronenberg perché in più di quarant’anni d’attività difficilmente la sua opera è incappata in passi falsi estetici o tematici, pur vedendo apportando un grande cambiamento nella scelta dei soggetti, incentrati nell’ultima parte della carriera del cineasta su storie realistiche - "A History of violence" (2005), "La promessa dell’assassino" (2007) - o biografiche - "A Dangerous method" (2011) - a discapito del genere trash-horror che l’aveva portato alla ribalta negli anni ’80.
Insomma, è difficile scrivere di Cronenberg perché la varietà e la complessità dei temi trattati richiederebbe pagine e pagine di approfondimento e difficilmente può essere riassunta in poche righe di un articolo. È difficile scrivere di Cronenberg perché risulta ingiustificabile, anche se comprensibile, considerando i gusti dell’Academy, come puntualmente egli venga escluso aprioristicamente dalla corsa agli oscar d’ogni genere, salvo rare eccezioni.
È difficile scrivere di Cronenberg poiché sembra impossibile spiegare le ragioni per le quali film con scarafaggi parlanti, vermi nauseabondi e mostruosi feti siano da considerarsi quanto di meglio il cinema abbia partorito negli ultimi quarant’anni.
È difficile scrivere di Cronenberg perché per comprendere è obbligatorio guardare.
Non può bastare un articolo.
Perché è difficile scrivere di Cronenberg.
Si consiglia la lettura di David Cronenberg, Gianni Canova-Castoro Cinema, 2007.
