ERAVAMO TANTO FELICI

Eravamo così felici nella casa dei giapponesi a Londra. Si parlava solo giapponese lì, perché i miei coinquilini dopo un’intensa giornata di studio o di lavoro non avevano più la testa per pensare in una lingua straniera. Non conoscevo ancora benissimo il giapponese, ma gli abitanti della casa si comportavano come i tedeschi quando vivevo a Oldenburg: si rivolgevano a me con frasi lente e semplici, parafrasando o mimando le parole che non comprendevo e dandomi così, senza nemmeno accorgersene, delle eccellenti lezioni di lingua.

Quando non dovevamo alzarci presto la mattina dopo, ci piaceva organizzare delle lunghe cene insieme e poi concludevamo la serata nel tranquillo giardino della casa, raccontandoci aneddoti divertenti e storie di fantasmi. I giapponesi andavano matti per le storie di fantasmi. Mentre l’oratore di turno narrava con voce cupa e tremante l’avventura vissuta in prima persona o riferita da un conoscente, tutti lanciavano acuti gridolini di spavento. Si trattava di fantasmi benevoli, come quell’anziana signora che aveva salvato un loro amico bambino da un terribile incidente stradale, ma anche di spiriti vendicativi, come quell’infante sghignazzante e sinistro che batteva i dorsi delle sue minuscole manine lievitando sul palcoscenico di un concerto, mentre la cantante in lacrime dedicava la sua canzone al feto abortito poche settimane prima. Mi spiegarono che battere le mani al contrario è un augurio di sventura e di morte.

Ai giapponesi piacevo perché, avendo vissuto in Giappone ed essendo fidanzata con un ragazzo di Hokkaido, offrivo loro un’opportunità unica di conoscere da vicino una gaijin, una straniera, senza spiacevoli equivoci culturali o barriere linguistiche di sorta. Le donne, in particolare, trascorrevano volentieri il loro tempo con me e mi mettevano in guardia da Taiji, un giovane della mia età che abitava nella casa e che loro consideravano irrimediabilmente hentai, pervertito. Su Taiji esercitavo, in maniera del tutto involontaria, un fascino esotico e irresistibile: bussava alla porta della mia stanza a ogni ora del giorno con scuse sempre diverse e faceva in modo di trovarsi in cucina quando sapeva che sarei tornata dal lavoro. Per scoraggiarlo, una volta avevo adottato una soluzione radicale: mi ero fatta la ceretta davanti a lui. Ma avevo ottenuto l’effetto esattamente opposto. Piacevolmente sorpreso, Taiji aveva commentato che una giapponese non avrebbe mai osato fare una cosa del genere e che le occidentali, soprattutto le italiane, dovevano pertanto avere una disinvoltura e una libertà interiore che lui apprezzava sopra ogni altra cosa.

La malignità dei giapponesi era però diretta soprattutto contro il manager della casa, Hanadasan, che non viveva con noi ma ci imponeva norme igieniche al limite della paranoia. Mentre lo prendevano in giro con sorridente e falsissimo candore, si auguravano sinceramente che sparisse per sempre dalle nostre vite e, poiché l’altruismo occupa una posizione predominante nella scala dei valori morali nipponici, possibilmente dalla faccia della terra. Hanadasan aveva minacciato di sbattere fuori uno studente di Osaka semplicemente perché una volta aveva lasciato scadere un cartone di latte e lo aveva dimenticato nel frigorifero per tre giorni e mi aveva rimproverata aspramente perché avevo buttato un mozzicone nella pattumiera della cucina. Mi aveva accettata nella casa soltanto perché ero insieme a un suo connazionale, e quindi a suo dire non dovevo essere sporca e rumorosa come tutti gli altri gaijin in fondo. Quando Hanadasan scriveva che sarebbe venuto a ispezionare la casa, tutti noi ci inventavamo impegni irrevocabili e sparivamo per ore.

Fu a causa sua, alla fine, che dovetti abbandonare per sempre quel posto in cui eravamo così felici. Hanadasan si infuriò perché, avendo fatto overbooking, mi aveva imposto di passare una notte sul divano, ma a distanza di mesi me ne ero dimenticata e non avevo rifatto il mio letto per la ragazza nuova, che lui dovette quindi sistemare per quella notte nell’unica stanza libera, la più costosa della casa. Hanadasan mi chiese di pagargli la camera in cui aveva pernottato la ragazza e di scusarmi solennemente, altrimenti, visto che il mio magro stipendio mi permetteva di pagare con sole due settimane di anticipo a differenza degli altri, che facevano i bonifici mesi prima, avrei dovuto lasciare l’abitazione in quanto inaffidabile e quindi indesiderata. Accettai di essere inaffidabile e quindi indesiderata e mi rassegnai ad andarmene, non prima però di aver organizzato una memorabile festa di addio con i giapponesi a base di sake, vino e fantasmi. Certo mi dispiacque andarmene, come sicuramente dispiacque anche a Taiji: eravamo tutti tanto felici in quella casa.

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