Professione: Head Hunter

Il 25 aprile del 1792 Nicolas Pelletier, un delinquente abituale, fu il primo condannato a morte a trovarsi sul patibolo di fronte alla ghigliottina. I tempi infatti erano maturi per una nuova macchina di morte il cui motto, di chiara ispirazione illuminista, era “ragione” e “uguaglianza”. Uno strumento progettato appositamente per essere “indulgente”: indulgente verso la vittima, che vedeva ridursi il tempo della sua sofferenza; ma indulgente anche verso il carnefice, che da esecutore materiale diventava soltanto l'inizio di un processo di uccisione meccanico, dove tra lui e il condannato si trovava una macchina neutrale. La nuova macchina non venne utilizzata solamente dal Comitato di salute pubblica ai tempi del Regime del Terrore, ma si fece “apprezzare” anche in altri contesti storici e statali. Non solo, ma la ghigliottina portò inevitabilmente alla professionalizzazione di un ruolo che era sempre stato disprezzato dalla comunità: quello del boia.

Essere l'esecutore di una cosa chiamata giustizia è stato spesso un mestiere nel quale un uomo si faceva carico di un peso più grande di quanto non potesse sopportare. Tuttavia, non sono pochi i casi in cui il mestiere del boia è stato visto, da colui che lo praticava, come la semplice esecuzione di un verdetto pronunciato da altri in nome della legge. Emblematica a tale proposito è la vita di Johann Reichhart, un “head hunter” (tagliatore di teste) di professione. Johann, tornato illeso dal primo conflitto mondiale, dopo aver concluso un apprendistato da macellaio e dopo aver cercato di fare l'oste, il rappresentante di libri e l'insegnante di ballo, accettò di ereditare dallo zio l'”arte” del giustiziere. Un'eredità così particolare, va detto, non rappresentava un'eccezione: in molti casi, soprattutto in Francia, si vennero infatti a creare intere dinastie di giustizieri che passavano l'incarico di generazione in generazione. Lo stesso accadde a Johann che, su consiglio dello zio, all'età di 31 anni fece suo l'incarico di boia. Un po' per rispetto nei confronti dello zio che lo aveva sempre aiutato economicamente, un po' perché sperava di ottenere un posto fisso nel servizio statale bavarese, nel marzo del 1924 firmò il suo primo contratto con il procuratore della circoscrizione giudiziaria di Monaco. Dopo un periodo di apprendistato in cui fece pratica utilizzando bambole e un cadavere messogli a disposizione dalla Medicina legale, nel luglio del 1924 arrivò il momento della prima esecuzione. Durante il primo anno di attività, Reichhart compì sette esecuzioni; l'anno successivo nove. A partire dal 1928, però, le pene di morte iniziarono ad essere commutate in ergastoli (segno delle riforme più umane della Repubblica di Weimar) e Johann, data la progressiva diminuzione delle entrate, pensò di abbandonare il mestiere di boia.

Dopo una sfortunata parentesi come fruttivendolo in Olanda, condizionata dallo smascheramento della sua identità, l'avvento del nazionalsocialismo in Germania, nel 1933, spianò la strada per il suo ritorno al patibolo. Nel nuovo Stato non si poteva fare a meno della sua esperienza come carnefice: fin dai primi anni del Reich infatti, intensa fu la discussione su quale fosse il “giusto” tipo di esecuzione e alla fine fu il Führer in persona a decidere che le esecuzioni dovevano avvenire per mezzo della ghigliottina. Reichhart stipulò un nuovo contratto, questa volta con il ministro della giustizia del Reich, e divenne l'esecutore delle pene di morte delle circoscrizioni di Monaco, Dresda, Weimar e, dopo l'annessione dell'Austria nel 1938, di Vienna. Dagli assassini comuni e i delinquenti della Repubblica di Weimar ai “parassiti del popolo” nel periodo del Reich: le esecuzioni divennero ben presto ordinaria amministrazione e quello che veniva chiesto ai boia era la rapidità d'esecuzione. Reichhart fece apportare delle modifiche alla ghigliottina che usava così da ottimizzare i tempi di esecuzione, adempiendo alla sua attività con piena soddisfazione del suo datore di lavoro.

Se per quasi tutto il XIX secolo le esecuzioni venivano spettacolarizzate, nella Germania nazista queste vennero nascoste alla vista del popolo. I boia agivano nell'ombra e lo stesso accadde quando a passare sotto la lama di Reichhart fu una delle sue più illustri vittime: Sophie Scholl di 21 anni, il cui “crimine” fu quello di essere un’attivista del gruppo antinazista della Rosa Bianca. Fu proprio Reichhart ad eseguire la condanna a morte per decapitazione della giovane, come viene mostrato nel film del 2005, diretto da Marc Rothemund, “La Rosa Bianca – Sophie Scholl”. Se la parabola del gruppo antinazista di Monaco divenne emblema della ribellione non violenta al Terzo Reich e la morte dei fratelli Scholl fu un avvenimento di forte impatto, per Reichhart quell'esecuzione non rappresentò altro che il regolare compimento del suo lavoro di giustiziere. Portò a termine la pratica secondo il regolamento e senza incidenti, poi scrisse la fattura, che quel giorno prevedeva 40 Reichsmark per lui, e 30 per i suoi due aiutanti. E così fece fino alla fine del Reich.

Finita la guerra, Reichhart si nascose nella sua casa convinto che, se gli americani lo avessero trovato, gli avrebbero riservato lo stesso trattamento che, fino a quel momento, egli stesso aveva riservato a oltre 3000 condannati a morte. Una volta catturato e condotto in prigione intuì subito quali fossero invece le intenzioni degli americani: avevano bisogno di lui per quel mestiere per il quale avevano avuto bisogno di lui lo Stato libero della Baviera durante la Repubblica di Weimar prima, e i nazisti dopo. Nella prigione di Landsberg, per ben 156 volte, Reichhart accompagnò al patibolo personalità del partito, sgherri dei campi di concentramento e pezzi grossi dell'economia del Reich. La giustizia americana fu talmente soddisfatta del boia da considerare addirittura di impiegarlo come esecutore delle personalità naziste condannate a Norimberga (il compito di Reichhart verrà infine limitato ad istruire il sergente Woods nell'“arte dell'impiccagione”).

Quando la giustizia americana non ebbe più nessuno da accompagnare al patibolo, Reichhart venne portato prima in un campo di internamento e poi venne giudicato dal Tribunale di denazificazione. Fu classificato come attivista del Reich e gli vennero imposti severi provvedimenti punitivi. Profondamente ferito, lasciò l'aula del tribunale con il figlio Hans, il quale non riuscì a superare l'umiliazione subita dal padre: nel 1950, all'età di 23 anni, si suicidò. Così, mentre la maggior parte dei giudici e dei magistrati al servizio del regime trovarono posto nelle sale della giustizia della nuova Repubblica di Adenauer, Reichhart non poté contare su altrettanta benevolenza. Usato dallo Stato, egli, in fin dei conti, fu soltanto un boia e come tale gli toccò la fine di tutti i carnefici: venne disprezzato per il ruolo ricoperto e morì povero e solo nel 1972.

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