Sillabari di Goffredo Parise - Recensione

Ho letto Sillabari la prima volta nel 2015. Avevo sentito una cantautrice che apprezzo e che stimo parlarne molto bene e così decisi di comprarlo. Che a distanza di cinque anni non mi ricordassi assolutamente nulla di questo libro non era un buon segno, ma decisi di dargli una seconda chance. "Magari ero troppo acerbo per apprezzarli" mi ripetevo. Così li ho riletti in questi giorni, ma vi confesso che non è andata meglio.

 

 

Ho iniziato anche a pensare che non avessi le conoscenze pregresse necessarie per apprezzarlo. Tuttavia Giuseppe Montesano scrive per la quarta di copertina:"Forse il modo migliore per leggere quello che è tra i vertici dell'opera di Parise, è fare come se di Parise non conoscessimo nulla, e questo libro uscisse per la prima volta oggi". Ed io effettivamente di Parise non conosco nulla e se questo è il vertice della sua opera non credo approfondirò questa conoscenza.

Sillabari sono una raccolta di racconti brevi scritti da Goffredo Parise, narratore, sceneggiatore e reporter italiano, morto negli anni '80. I racconti qui raccolti, con i quali l'autore si è aggiudicato sia il Premio Strega che il Premio Campiello, sono apparsi in origine sul Corriere della Sera fra il 1971 e il 1980. In una sorta di prefazione al volume, l'autore scrive che, mosso dalla mano della poesia, "giurai a me stesso di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z. Sono poesie in prosa". I problemi per me sorgono già qui, nonostante il libro non sia ancora iniziato. Cosa intende con poesie in prosa? Forse vuole dire che sono poesie in versi liberi? No, sono semplici racconti brevi. Racconti che hanno qualcosa di poetico? Forse, anche se sarebbe bastato definirli racconti molto evocativi (e anche questo è tutto da vedere). Ma andiamo avanti.

 

 

Dovrebbero essere racconti sui sentimenti umani, benissimo. Guardo l'indice e leggo tra amore, amicizia, solitudine e felicità, racconti intitolati lavoro, mare, Roma, cinema che a casa mia non sono proprio dei sentimenti umani. Mi rassegno pensando che non tutti i nomi affibbiati ai racconti rispecchiano il sentimento che l'autore andrà a descrivere, ma continuo a domandarmi che senso abbia avuto allora creare questo impianto concettuale basato sui sentimenti in ordine alfabetico se poi viene meno fin dall'inizio. Chiedendomi dunque che sentimenti saranno presenti in questi capitoli mi tuffo nella lettura.

Partiamo dai lati positivi. Parise è estremamente bravo a delineare le caratteristiche dei suoi personaggi. Ogni racconto ne ha uno differente come protagonista. L'autore ci descrive minuziosamente tutti i dettagli di ognuno. Tali descrizioni sono così evocative che ci sembra di vederli questi personaggi. Tuttavia sono ben quattro le caratteristiche di cui abusa: i capelli rossi e ricci, le scarpe indossate senza le calze, gli occhi mongoli e i denti bianchissimi, ma glielo abbuoniamo perché le descrizioni sono veramente ben fatte.

Da queste e da altri dettagli come per esempio i gesti e alcuni pensieri che ci vengono riportati, possiamo intravedere la psicologia delle varie figure che ci vengono presentate. Ritengo che se lo scopo di Parise fosse stato quello di descrivere i sentimenti questa parte avrebbe dovuto essere il centro nevralgico della narrazione, ma non è così. Spesso infatti le azioni dei personaggi appaiono insensate e immotivate. Grazie alle descrizioni è come se avessimo delle foto molto dettagliate di un gran numero di situazioni, nelle quali tuttavia rimane imperscrutabile cosa muova le persone. Non dovrebbero essere proprio i sentimenti e le emozioni? Nella prefazione l'autore definisce i sentimenti labili. Ma labile non vuol dire imperscrutabile. Ho anche coperto i titoli dei vari racconti e, dopo averli letti, ho provato ad indovinare di che sentimento si parlasse. I risultati sono stati pessimi. Addirittura ho notato come alcuni titoli potessero essere tranquillamente scambiati e sostituiti l'uno con l'altro.

La cosa curiosa di questo mio esercizio è stata che avrei voluto chiamare una buona parte dei racconti malinconia o rimpianto. E a tal proposito vorrei citare una recensione che ho trovato su Goodreads e con la quale mi trovo parecchio d'accordo.

Il filo che lega questi componimenti appare la nostalgia, più che velata di malinconia, intrisa di rimpianti: lo sguardo di un vecchio che ha vissuto male al quale i ricordi anziché portare conforto acuiscono il senso di inutilità.

Dalla lettura di questi racconti infatti quello che emerge, nonostante nell'indice si possano trovare l'amore, l'affetto, l'amicizia, la felicità, è un forte senso di malinconia. I soggetti che ci vengono raccontati sono inappagati, annoiati, bloccati in situazioni in cui non vogliono stare. Soffrono pensando a ciò che non hanno fatto e a ciò che avrebbero potuto fare. Ripensano alla loro gioventù attraverso rimpianti e rimorsi. Sono insoddisfatti, non sono riusciti a trovare un senso alla vita e lo scorrere del tempo gli appare inesorabile. Quello che invece non ho visto e che avrei voluto vedere è il resto dello spettro delle emozioni.

 

 

Se le descrizioni sono il punto forte di Parise, non si può dire la stessa cosa della sua prosa per quanto riguarda le azioni raccontate. Il modo di raccontarle mi ha addirittura innervosito per due motivi principali: il primo è che sono inutili ai fini della narrazione; il secondo è che non sono neppure ben scritte e dunque non si prova piacere nel leggerle. Sono troppo rapide e consequenziali. Sono quasi tutte coordinate e per questo danno la sensazione di essere slegate l'una dall'altra; un'accozzaglia di avvenimenti che sembrano succedere in rapida successione senza essere interconnessi. Mi chiedo se sia questo tipo di prosa ad essere definito poetico. Alcuni esempi qui di seguito:

I vestiti aumentarono ogni giorno di più e fu comprata una valigia che il giorno della partenza il figlio non riuscì a sollevare nonostante tutti gli sforzi. Allora fu chiamato un facchino che, però, brontolò. Il padre li accompagnò fino alla stazione delle autocorriere e quando furono bene installati nelle poltrone, immediatamente dietro il guidatore dove si soffre meno la nausea (erano andati alla stazione in anticipo proprio per questo), l'immensa valigia color mattone fu issata e altri quattro o cinque viaggiatori si furono accomodati, la corriera partì ed egli tornò a lunghi passi verso la città.

E subito dopo:

In realtà il figlio aveva un po' di nausea, quasi nulla, abbastanza però da fargli cambiare posto due o tre volte; finalmente, tra un turniché e l'altro, si lasciò dolcemente appisolare ma si svegliò subito e vomitò. Si sentì un poco meglio, ma pensò bene di continuare il viaggio affacciato al finestrino, respirando a pieni polmoni l'aria fredda e guardando in direzione dei monti se spuntava l'albergo.

Come si può notare alcune di queste informazioni non servono assolutamente al lettore (che il bambino riesca per un momento ad addormentarsi dolcemente, che poi si affacci al finestrino e gli altri dettagli) . Con questo non voglio dire che le informazioni che ci vengono date debbano essere sempre necessarie. Spesso infatti assistiamo piacevolmente a puri esercizi di stile. Ma in questi casi la mera successione di fatti non serve neppure ad appagare il lettore. Inoltre dire che la nausea è quasi nulla per poi farla sfociare nel vomito sembra contraddittorio.

Gli stralci che ho riportato qui sopra sono tratti da un racconto in cui madre e figlio vanno in vacanza in un albergo in montagna. Durante la vacanza va tutto storto (e a mio avviso l'autore avrebbe dovuto approfondire questa tematica) e le pessime condizioni dell'albergo costringono i due a tornare a casa anticipatamente. Tuttavia il racconto si conclude con "a loro non importava un fico secco che egli (l'albergatore ndr) scrivesse o non scrivesse a Mario (il marito ndr), tanto bella era la vita", e il racconto viene intitolato Allegria. Purtroppo però il racconto trasmette tutto fuorché allegria. Che sul finale si scopra che i due protagonisti non si siano lasciati abbattere dall'esito della vacanza non li rende allegri e non fa sì che nel lettore nasca allegria. Lascia piuttosto un senso di insipidità e asetticità che non ho apprezzato.

Bortolo sistemò l'assicella con il vischio e molto spesso, ma sempre meno più i giorni passavano, andava a vedere: del topo nemmeno l'ombra. Il topo cominciò a farsi vedere: velocissimo, appariva e spariva.

Anche in questo caso la mancanza di una connotazione temporale per il secondo periodo fa sì che le frasi sembrino contraddittorie. Quando iniziò a farsi vedere il topo? E perché? Prima sì e poi no, in base a cosa?

A causa di tutte queste problematiche, la lettura dei Sillabari mi è risultata lunga, difficile e noiosa. Le frasi legate male l'una all'altra, la psicologia dei personaggi che emerge a fatica, le emozioni che risultano essere quasi sempre le stesse e questo senso di pesantezza e frustrazione che trasmette il volume ha fatto sì che io non lo abbia apprezzato quasi per nulla. Non lascia il segno e anzi degli svariati racconti le cose che rimangono impresse sono veramente poche.

Questo giudizio così netto da parte mia fa sì che questa sia decisamente una unpopolar opinion poiché, oltre ad aver vinto premi importantissimi a livello italiano, la gran parte delle recensioni definiscono questo libro come un capolavoro. Non è un libro che consiglierei, ma continuo a chiedermi se io mi sia perso qualcosa. Una terza chance non credo di dargliela, ma rimango aperto ad un confronto con chi invece è riuscito ad apprezzarlo.

 

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