Dietro alla fotografia sovresposta di Luca Bigazzi e alle tinte candide della biancheria intima, delle felpe, degli abiti talari e delle carnagioni. Dietro agli immacolati artifici di Piazza San Pietro e dietro gli innumerevoli veli che coprono le suore, il volto di Papa Pio XIII, una ragazza che dorme e non si accorge della donna morente di fianco al suo baldacchino. Dietro ad immagini statiche che sembrano riprodurre i santini stampati su cartolina, con il loro aspetto ieratico e grottesco.
Dietro ai binocoli, ai cannocchiali, agli strumenti di chi spia da lontano per la paura o l’incapacità di entrare in contatto con l’altro. Dietro alla patina, alle invocazioni di santità, agli errori umani e – perché no – anche dietro alla macchina da presa c’è qualcosa di oscuro e imprecisato che aleggia drammatico tra i verbi e la gestualità, che non si lascia afferrare, talvolta si mostra in penombra ma non si concede ai ritratti. C’è tutto questo dietro The Young Pope, il Papa giovane che è in realtà Lenny Belardo, l’uomo, l’orfano che prova a sottrarsi alla vista, agli occhi del pubblico, perché il più grande autore statunitense del novecento è stato Sallinger, il più grande artista contemporaneo è Banksy, la più grande cantante italiana Mina e il duo di elettronica più influente del nuovo millennio i Daft Punk (lo dice lui stesso in una scena che è già storia), ma per quanto egli possa cambiare nome o nascondere la figura istituzionale ai fedeli, non può occultare l’uomo allo spettatore. The Young Pope è una serie sull’uomo, Sorrentino lo ricorda continuamente attraverso diversi espedienti: la camera che si allontana dal corpo di Jude Law con una vertiginosa plongée, la quale finisce per inquadrare la terra intera, tramite le inquadrature che si soffermano su bocche, mani, seni, occhi, e costruendo personaggi peccatori, euforici, timorosi, reali.
Questa non è un'opera che parla di Dio e di esistenza con la pomposità e la seriosità con cui potrebbe farlo un Malick, riflette piuttosto sul rapporto tra l’uomo e il divino, sul bisogno umano di mettersi alla ricerca di una soluzione a quel mistero che potrebbe dare un senso al proprio vissuto, al proprio dolore e al proprio futuro, e lo fa attraverso composizioni tanto aberranti quanto realistiche: un Cardinale (Silvio Orlando) che affida la sua fede a Higuaìn e alla maglia del Napoli, un mentore (James Cromwell) ferito dalla sua mancata elezione al conclave, un cardinale (Scott Shepherd) che si trova a dover denunciare per omosessualità un seminarista con cui ha avuto un rapporto.
Vi diranno che The Young Pope è solo una facciata, un prodotto ben confezionato, un’elucubrazione vanesia e presuntuosa che non racchiude niente al suo interno, che è un’inutile chiacchiericcio tanto simile a quel “bla bla bla” che tormentava Jep Gambardella e che lo ha reso il personaggio icona del nuovo cinema italiano. Paolo Sorrentino non è un narratore, è un visualizzatore. E le maggiori reticenze in merito alla sua serie televisiva erano rivolte proprio verso lo sviluppo della trama. Ma più che una vera e propria serie tv, The Young Pope è un film a episodi e ha infatti in parte confermato i timori che lo accompagnavano, con uno svolgimento che tarda a prendere corpo e qualche pausa di troppo; Sorrentino è però riuscito ad aggiungere un carattere che spesso latita anche nelle migliori serie televisive, e lo ha fatto meglio che ne La Grande Bellezza o This Must Be the Place: il dialogo. Taglianti, drammatici, visionari (una frase su tutti: “Purtroppo hanno preso l’abitudine di darlo [il premio nobel] solo a quelli che non lo desiderano). Botta e risposta, monologhi, soliloqui. Prima di giocare con le immagini il regista gioca con le parole, ed è proprio attraverso di esse – per dirlo con le parole di DeLillo – che l’uomo definisce il suo mondo e la sua identità. E’ per mezzo di queste che compie la sua ricerca. Le parole viaggiano attorno all’immagine, la descrivono, provano a coglierne l’essenza, accompagnano l’idea di ricerca della bellezza tanto cara a Sorrentino, la ricerca di chi è pronto a tutto pur di scattare un “selfie” col Santo Padre, dei giornali che accusano, costruiscono teorie sulle sue non apparizioni, del Papa che scrive lettere d’amore a una donna che non può amare perché sposato con Dio – l’essere senza immagine – e che al contempo cova un ricordo tenero e dolce della figura di una ragazza nuda in riva a un fiume.
Ma tutti i personaggi hanno il bisogno di dare un volto a Dio. Si aggrappano ad ogni briciola di purezza e ad eventi traumatici per trovare motivazioni alle loro azioni, anche quelle apparentemente più meschine, come il Cardinale Angelo Voiello che espia il male commesso pregando in ginocchio di fronte al volto angelico di un ragazzino disabile di cui si prende cura e al quale guarda come all’unica persona pura sulla terra, o quella del Cardinale Kurtwell, che prima di denunciare i suoi abusi prorompe in un pianto macabro, memore della violenza subita da giovane da parte di uno strozzino. Ci si prostra davanti all’immagine, ci si aggrega davanti all’immagine, così che Pio XIII cela la propria per renderla di nuovo agognata, per rigenerare il mistero e spingere i fedeli ad una devozione pura, non mercificata e non inflazionata; ci si accorge presto però che anch’egli è ossessionato dalle immagini, due in particolare, quella dei genitori che non ha mai visto né conosciuto, che l’hanno privato dell’infanzia e del loro volto, che altro non può essere che quello di Dio.
Pio XIII muove il suo rancore contraddittorio a causa dell’immagine incerta del padre e della madre, e mostra le sue fragilità umane e le necessità individuali dietro ogni azione, anche di tipo “ministeriale”, scegliendo di mostrarsi in pubblico per la prima volta nella Venezia dove gli è stato consigliato di “seppellire due bare vuote”, disponendo il pedinamento del Cardinale Kurtwell, accusato di pedofilia, e chiamando al suo fianco Suor Mary, la donna che l’ha allevato, nel momento in cui da figlio ripudiato deve assumersi la responsabilità di diventare padre di milioni di uomini, e quindi passare dalla condizione giovanile di un ragazzo alla ricerca di senso a quella di uomo che un senso lo deve dare agli altri. In definitiva, la spinta individuale all’aggregazione tipica di ogni uomo e base stessa della religione (“fiumi siamo noi, se i ruscelli si mettono insieme” cantano i pellegrini in autobus) si scontra con la solitudine personale di fronte alla sofferenza, anche di quelle figure guida che non possono, loro malgrado, smettere di essere umane e quindi incerte, dubbiose e timorate ma che – fosse altrimenti – come per il Dottor. Paul O’Rourke di To Rise Again at a Decent Hour/Svegliamoci pure, ma a un’ora decente di Joshua Ferris, senza gli interrogativi e il dolore, senza il carattere distintivo di ciò che è umano, non potrebbero mai trovare Dio, nemmeno in un’immagine.
